POESIA. Colella, poeta “senza frenu” di Francesco Greco
Il vecchio mondo arcaico, contadino, col suo patrimonio di valori, è scolorito. Non era il migliore dei mondi possibili, ma neanche il peggiore. Il nuovo non ci piace punto, è ispido e pregno di contraddizioni, con le sue alienazioni e imposture che ci si spalmano addosso, anche in modo inconscio.
Come fantasmi inquieti, siamo finiti in un mare di relativismo, una terra di mezzo, o di nessuno. Attraversiamo tormentati un’epoca che ha fatto della volgarità, la bruttezza, il cinismo, il darwinismo sociale le sue icone più sordide e devastanti.
La conoscenza superficiale, di massa, che diviene non coscienza, ibridata dal feticismo insulso della tv “cattiva maestra” è una sorta di “fede” del nostro tempo.
Dati questi postulati, è bello, confortante sapere che c’è qualcuno capace di stupirsi e finanche di scandalizzarsi. Che ha conservato incorrotto lo sguardo e innocente il cuore.
Ne consegue che non tutto è perduto, che la deriva dell’etos non è un fatto ormai scontato: un altro “sguardo” è possibile, un nuovo mondo (conservando il meglio del vecchio) non è utopia.
Con questo stato d’animo di grande emozione e anche di commozione (come ha scritto Lino Patruno in un post su FB e fra le righe riecheggia Maria Rosaria De Lumè nella prefazione) ci si avvicina alle pagine di “Sunetti senza frenu”, di Giancarlo Colella, Edizioni Kurumuny, Calimera 2017, pp. 101, euro 10,00.
D’istinto, il lettere sarà attratto dall’anticlericalismo, ma esso è solo una delle password dell’accesso al testo, della “spirazzione” del poeta Colella (“radicato nella terra salentina come un ulivo secolare”), che politicamente si è formato alla scuola del socialismo delle origini, di fine Ottocento e dell’altro secolo e professionalmente pratica il giornalismo civile e coraggioso che con l’avvento del morbo berlusconiano trova sempre meno militanti. Attività svolta in parallelo a quella di educatore nelle classi dove ragazzi “difficili” e tranquilli convivono, tanto da aver attirato, anni fa, l’attenzione della scuola tedesca, che si precipitò in Salento a vedere come si fa (e imparare). Senza trascurare la passione per la musica tradizionale, identitaria (ha fondato i “Coribanti” con cui gira il mondo). Insomma, un personaggio multitasking, un po’ come i nostri padri e nonni.
Da Marziale all’Aretino Pietro sino al Belli e allo stesso Brecht, la poesia “politica” ha antiche e nobilissime radici. Ma anche Aristofane e lo stesso Cicerone – passando dai menestrelli medievali (da Cecco Angiolieri a Guittone da Todi) – irridevano il potere cogliendone la comicità spesso involontaria, e per questo ancor più efficace. D’altronde, questa è anche la terra dell’impertinenza di Papa Cagliazzu e dello stesso Capitano Blek.
Colella si inserisce in questo solco usando il dialetto ancor prima di Camilleri, sapendo che è più ricco, come fonemi, pathos e senso dell’italiano (e che spesso è intraducibile). Esso è la nostra prima lingua, la succhiamo col latte al seno della madre, traccia la nostra identità, le radici, la memoria, il sedimentare del tempo.
Sarebbe però riduttivo decodificare i “sunetti” solo come una secchiata di vetriolo su monache in fiamme, preti gaudenti, vescovi maneggioni, cardinali che levano ai poveri per mettere nelle loro carte di credito. Una fauna varia bersagliata dallo stesso Papa Francesco e che Cristo, se tornasse, scaccerebbe dal tempio.
Il poeta (Acquarica del Capo, 1951) volge lo sguardo alle patologie e le criticità vecchie e nuove della modernità, le contraddizioni che non riusciamo a gestire e che rischiano di travolgerci e affossarci: la xylella (“verme discraziatu”), le trivelle nel nostro mare in cerca di un pessimo petrolio (“le gente sta se sente propriu nchiata”), l’illusione di Mani Pulite (“Nenti è canciatu”).
Ma anche i tic, le manie, le paranoie, le mode, i miti e i riti sospesi fra ieri e oggi: l’eterna giovinezza (“La Carmela me pare na vagnona”) e la virilità (“T’hai fatti li massaggi e le nezioni”), la fine dell’artigianato sconfitto dai centri commerciali (un delicato omaggio al padre “sartore”): “Ma poi ccumincia a ssire lu difettu:/ lu cavallu, la manica o lu collu”.
Impreziosito dal tratto del pittore Enzo Ferramosca, che ha curato la cover e le vignette accoppiate ai “sunetti”, il libro è stato presentato da APA (Associazione promozione Alessano) e l’Associazione Emigranti, nella sala consiliare del Comune (che ha dato il patrocinio). Serata riuscitissima condotta brillantemente dal presidente APA Antonio Melcarne, con gli apprezzati interventi del sindaco della città, Francesca Torsello, del prof. Antonio Negro e di Corrado Torsello che ha letto “Le clorie de Alessanu”, di Pietro Papuli e una sua composizione, sempre in dialetto, sulla difficile vita, oggi, di padri e nonni alle prese con le esigenze consumistiche di figli e nipoti, tema, guarda caso, trattato anche dal poeta nel sonetto “Tutti vizziati”.